I racconti ~ Un inferno di nient


 

Piutost che nient, l'è mei piutost, solevano dire i vecchi a Cascina del Bruno. Ma poi l’intero quartiere esplose sotto una pioggia di napalm, e non restò nient nemmeno del piutost. Di quella deflagrazione ricordo ancora il calore, il boato, la puzza del mutagene che prendeva fuoco.

C’è chi in quell’apocalisse si ritrovò arso vivo o mutilato. Scintille incandescenti luccicano ancora nei miei occhi: tolgo la sicura dall’estintore e faccio fuoco.

Peggio delle fiamme della Geenna.

Peggio di Montag nell’inferno di Bradbury.

Sono un piromane e me la godo. Gioisco mentre la lingua arroventata avvolge la cattedra, la bacia con trasporto e la disintegra. Ci ho tenuto un sacco di lezioni, là sopra.

Bruciare sempre, bruciare tutto.

In Riviera l’estate dura sei mesi e i conti tornano sempre pari, ma qui in Brianza è diverso... il nichilismo è un bauscia perbene, si sistema gli occhiali e fotte sempre tutti.

Me li sistemo anch’io, tra una vampata e l’altra: montatura Vespa, enorme, combo sole e miopia. Troppo tamarri per l’accademia, troppo spessi per la barbarie. Faccio fuoco lo stesso, brucio i banchi e intanto ripasso a mente il ventiseiesimo dell’Inferno dantesco. Ulisse sapeva, ha scelto il fuoco al mutagene. Come biasimarlo.

Osservo commosso le fiamme che divorano il mio regno. 

«T-te finì, Supplènt?», mi urla Caposquadra, sovrastando il ronzio del decespugliatore. L’incendio gli crivella di riflessi il braccio bionico. Impaziente, tira un calcio alla porta dell’aula, già aperta, buttandola giù con tutti i cardini. Anche lui se la sta godendo.

«Ancora un attimo», ringhio. Ripenso a quante scuole e biblioteche abbiamo dato alle fiamme. All’ultima copia dell’Iliade disintegrata sul rogo. Il crepitare dei volumi bruciati mi rimbomba nella testa, non mi dà pace. Il fuoco splende e il fuoco pulisce.

«Dobbiamo s-salire, nem. C’è su il Vampiro c-coi mutànt.»

Mi giro e guardo Caposquadra, la zazzera bionda, gli occhi glaciali e il braccio meccanico. Di greco non ha un bel nient; di hardmony, piutost. Quando parla balbetta, ma quando meNa è uno spettacolo da poema epico. Me lo godo mentre ruggisce, si avventa sui banchi arroventati e li scaglia di peso, uno dopo l’altro, fuori dalle finestre. Rivedo Achille che fa a pugni con lo Scamandro. Conan che affronta il serpente. Sorrido: finché sarò al fianco di questo barbaro, l’Iliade sopravvivrà.

Usciamo dall’aula, imbocchiamo un corridoio che puzza di morte e cominciamo a correre. La scala, sporca e diroccata, si staglia in lontananza sotto la luce verdastra e intermittente di un neon. Tra noi e lei, l’orda dei mutanti. Da quanto tempo hanno invaso la scuola? Non lo so più. Altro che guerre persiane e conflitti mondiali: il Crollo è l’unica vera cesura storica.

Guardo Caposquadra che annuisce carico, di rimando. A lui l’adrenalina, il decespugliatore Stihl che trancia teste e tentacoli. A me la dialettica, l’estintore, il ghiaccio che vomita fuoco. Assaltiamo i mostri insieme: acciaio e fiamme per domarli tutti. Non è facile arrivare alla scala, ma ce la facciamo. Come ai tempi del Crollo, quando il mutagene era appena colato sulla Brianza e il liceo in cui insegnavo fu preso d’assalto all’improvviso. Da fuori, da dentro, dappertutto. Ho visto cose che voi umani.

Docenti dalle fauci zannute fare a brandelli i loro studenti; il dirigente scolastico e i suoi sgherri, fusi in unico corpo dai mille e più occhi, ghermire e stritolare i colleghi più deboli; i bidelli riprodursi per scissione in entità sempre più piccole e inondare i corridoi come una marea di nani selvaggi. Perfino gli studenti cominciarono a mutare. Travolti dal Crollo e dallo schifo, in troppi ne diventavano parte.

Fu allora che imbracciai l’estintore. Decreto antimutagene Di Maio-Salvini 12-2018, pre-Crollo: “Ogni esercizio o attività commerciale è tenuta per comma a dotarsi di un dispositivo lanciafiamme da impiegare in caso di manifesta contaminazione”.

Tolgo la sicura, mi incazzo e faccio fuoco: i mutanti davanti, i miei ragazzi dietro. Almeno loro li devo salvare. Un misero supplente, letterato e precario, che improvvisa la prova di evacuazione più disastrosa di sempre. Corriamo per il corridoio, ma la fuga è impossibile: dentro c’è l’apocalisse, fuori l’inferno. Decido che dobbiamo salire, anche se so che equivale a chiuderci in trappola. 

«Supplènt!», tuona Caposquadra, scuotendomi con la mano bionica. Il metallo stringe sulla pelle e mi lascia un livido violaceo sul braccio. Fisicamente sono sempre stato una pippa.

Torno al presente e fingo di avere il controllo. I mutanti del piano di sotto emanano un fetore di plastica bruciata. Schiarisco la gola e scaracchio, alla loro salute e alla mia.

«Troviamo il Vampiro e andiamocene», tossisco. «Abbiamo preso il peggior bidone di sempre.»

In fondo a un reticolato gestaltico di aule e corridoi sentiamo esplodere il grido del nostro uomo.

«A giudicare dall’eco delle stecche», faccio notare a Caposquadra. «O è nei guai fino al collo, o se la sta godendo di brutto.»

Ma Caposquadra è già partito di corsa, il braccio teso e lo Stihl che frinisce implacabile. Da qualche parte in Riviera qualcuno gli offrirebbe una cedrata.

Ci facciamo strada lungo i corridoi, massacrando tutto e tutti: il barbaro falcia, io brucio.

Troviamo il Vampiro circondato da corpi sventrati, arti ed escrescenze strappate a morsi. Un sangue marcio, più fetente del Lambro, allaga i pavimenti. Il Vampiro scivola, anzi vola, muovendosi come un’idrometra su quel pantano di morte. Tra una bestemmia e l’altra volteggia, azzanna giugulari, fuma drum e affetta con la sua katana leggendaria. Una lama miracolosa, degna del profeta Chef Tony, il più grande ciarlatano e schermidore del marketing pre-Crollo. Trofeo di guerra all’escape room di Cartoomics, città di Milano, conquistata in una giostra sanguinaria contro un’orda di nerd contaminati. Fu allora che per noi, per tutti, divenne il Vampiro: settantadue ore di massacro ininterrotto, battle royale misto gabbia. Ne uscì da solo, i canini che grondavano nero, pieno come un barile. Mentre il resto della Brianza faceva la fame, il Vampiro se li mangiava, i mutanti! Chissà, forse un giorno divorerà anche noi. 

«Uè, duma?», ci saluta, indicando con un cenno l’ultima aula. Gli occhi di Caposquadra scintillano.

«Ci sono i c-computer?», mi chiede. Scuoto la testa.

«Solo libri, è la biblioteca.»

«Che cazzo d-dici.»

Guardo il Vampiro, che leccandosi le labbra annuisce.

«Il peggior b-bidone di sempre.»

«Dipende», rispondo. «Se troviamo una copia dell’Inferno, il Cavaliere può ristamparlo e ricoprirci di miliardi.»

«Sono solo libri. Non frega nient a n-nessuno. Lim e stampanti le p-possiamo rivendere.»

«Non hai saputo di Benigni?», si intromette il Vampiro, bloccando l’orazione che già mi preparavo a vomitargli addosso.

Il barbaro nega.

«Sua Emittenza lo ha rapito perché, dopo il Crollo, è l’unico a sapere a memoria le tre cantiche dantesche. Gli hanno offerto uno, dieci, cinquanta miliardi per una copia scritta, ma lui ha rifiutato. Non l’ha mai potuto vedere, il Cavaliere.»

«E poi? Che fine ha f-fatto?»

«Torturato», cinguetta il Vampiro, schioccando la lingua. Il suo interesse non era di tipo accademico. 

«Supplènt, nem, l'è roba tua!», ruggisce Caposquadra, vecchio cuore, dandomi una pacca sulla spalla col braccio bionico. La sua analisi è semplicistica ma corretta: il supplente porta ai libri, i libri portano al danè. Mi stupisco, perché ho davanti un barbaro che ha capito perfettamente, e spiegato con meno parole, le coordinate socio-economiche dell’editoria pre-Crollo.

Ci prepariamo a irrompere nella biblioteca, ma io esito. I miei due compari se ne accorgono, mi squadrano e capiscono che non c’entra la mia solita strizza. Non fanno domande, mi lasciano il mio tempo.

«Li ho persi tutti là dentro», confesso. «Ci eravamo barricati per sfuggire ai mutanti, ma siamo finiti nel covo della Bestia.»  

Ripenso, rivedo, risento tutto. Ciò che avviene dietro le lenti scure è un segreto, ma i miei compari sanno, capiscono.

«Prima le apriamo il culo», mi rincuora il Vampiro. «E poi scoviamo il librone. Se c’è.»

Non è per affari che siamo finiti in questo liceo. L’Inferno di Dante, l’estasi dell’oro, non è che un pretesto, un ipotetico Graal. È la vendetta il vero motivo del viaggio, e il peggior bidone di sempre.

Sfondiamo, entriamo nel finis Africae e scorgiamo la Bestia. Un drago mutante che più che Godzilla, sembra un Charizard al livello cento. Una nube di mutagene in fiamme ci piomba addosso, calda e densa come gas di scarico. Guardo i miei compagni, li vedo confusi: di certo non si aspettavano di affrontare un Pokémon, e che puzzasse così tanto. Se glielo avessi detto mi ci avrebbero mandato.

Mi faccio avanti per proteggerli. La vampa dell’estintore impatta il fiume del mutagene, che si accende all’istante. La combustione si propaga, invade la bocca del mostro e lo attraversa tutto, da dentro. Charizard comincia a brillare, ma poi ingoia, rutta, e del mio fuoco, il mio orgoglio, non rimane più nient. 

«Fuggite, sciocchi!», gemo, voltandomi di scatto e cominciando a correre. Prego che i miei compari siano altrettanto svelti e per fortuna lo sono: insieme saettiamo da un corridoio all’altro, su e giù per le scale, un piano dopo l’altro, il Balrog di Nintendo sempre alle calcagna.

«Che cazzo hai fatto, Supplènt? Dove ci hai portato?», impreca il Vampiro, eccitato e terrorizzato al tempo stesso. Chissà se qualcuno lo ha mai mangiato, un Pokémon. Senza più fiato, ci serriamo dentro un’aula vuota al secondo piano: stavolta, prima di entrare, la controllo bene. Studiamo un’uscita d’emergenza giù dalla finestra. C’è un terrazzamento, poi un salto non impossibile, perfino per me. Possiamo ancora salvarci. Ma poi risento le urla, rivedo i loro occhi.

«Compari», dico all’improvviso, con una voce che non è la mia. «Io torno fuori, lo devo affrontare. È una cosa mia privata, perciò adesso ve ne andate senza fare storie.»

«Ti p-piacerebbe», sorride Caposquadra. I suoi occhi azzurri non sono mai stati così caldi.

 «Dobbiamo c-ciapà insieme i danè

«E banchettare sopra il suo cadavere», ghigna il Vampiro. «Se lo ammazziamo, entreremo nel mito.»

I muscoli del barbaro, a quelle parole, spasimano ignoranti ed eroici.

«Non lo saprà nessuno», rispondo, con il cinismo di chi ha vissuto il Crollo e visto la letteratura andare a puttane.

«Noi s-sì», insiste il barbaro. «Supplènt, sai se c’è un modo per dire queste c-cose a t-tutti?»

Arriccio le labbra in un sorriso amaro, commosso: «Un tempo le scrivevamo nei libri».

Stiliamo il nostro piano a prova di Charizard. La fiamma del mio estintore non ha effetto, quindi tocca a me fare da esca. Sfondo la porta in un’uscita teatrale e insulto il mostro a gran voce. Funziona anche troppo.

Il Pokémon accorre, fetente e disgustoso: non ha niente della gloria dell’originale. Faccio un balzo indietro e riattraverso la porta dell’aula.

Nell’esatto momento in cui l’orrore varca la soglia, Caposquadra e il Vampiro gli sono addosso. Il decespugliatore da un lato e la katana dall’altro lo infilzano senza pietà squarciandogli il ventre. È superefficace: il mostro tentenna, stravolto. Barcolla, mentre una chiazza di mutagene e benzina si allarga sul pavimento della 5^B. Sembra che la metà di sopra e quella di sotto traballino l’una sull’altra.

Il Vampiro mette un piede sul manico della katana, si arrampica sul Pokémon e lo azzanna alla gola. Riferirà di non aver mai più bevuto un sangue così. Caposquadra, nel frattempo, termina la manovra di abbattimento del tronco: il decespugliatore ora è una motosega, e i muscoli del barbaro, bionici e non, luccicano di sudore e gloria. Mutagene e organi interni a cui non saprei dare un nome schizzano ovunque, mentre il busto di Charizard crolla in avanti reciso dalle parti inferiori. Il Vampiro, ancora attaccato alla gola, gli ciuccia il sangue come una zecca.

Sulla 5^B è calato il silenzio. Gli umori contaminati del mostro sono schizzati ovunque: il mutagene gronda dalla cattedra, dai banchi e perfino dalla lavagna. Nauseato, caccio fuori i miei compari e appicco il fuoco.

Mentre le fiamme si propagano insaziabili, saliamo le scale e penetriamo nella biblioteca: guido io l’incursione, i libri sono il mio regno. Mi basta un’occhiata per scorrere gli scaffali, rintracciare opere e autori, criteri di raggruppamento. Il tempo è poco, ma mi basta. Trovo l’Inferno di Dante, curato da Bosco-Reggio, edito da Le Monnier, in un mucchio di romanzacci neorealisti e poesia contemporanea. Mentre le mie dita affusolate avvinghiano, d’istinto, l’unico volume degno di essere salvato, Caposquadra esplode in un grido di gioia selvaggia.

 

***

 

È notte, e io mi avvio da solo verso la Villa del Cavaliere, per parlare di affari.

Il Vampiro da qualche giorno non sta bene: nulla di grave, ma il sangue di Charizard lo ha inchiodato sulla tazza. Caposquadra, invece, se n’è andato al Parco, a caccia di mutanti. È un mercenario semplice: vuole il danè ma odia i politici, e accompagnandomi teme di combinare un casino. Sanno entrambi che non li tradirei mai, e hanno ragione. Conosco bene Arcore, Àrcur o Hardcore per i più: Cascina del Bruno era una sua frazione, prima che esplodesse sotto una pioggia di napalm, e io ci vivevo.

Nella Villa del Cavaliere, ovviamente, non sono mai riuscito a entrare: neanche quando da bambino portai a Sua Emittenza con il catechismo quattro o cinque sacchetti di ulivo benedetto; o come quando, universitario e coglione, inviai dei versi orribili in lettura, tutti gentilmente e inesorabilmente cassati.

Ma stavolta è diverso.

Il Nero Cancello di Mordor si aprirà, e io parlerò, negozierò con Sauron in persona. Perché sono il giuda che può consegnargli Dante Alighieri. La Villa pullula di guardie mutanti, enormi e puzzolenti come troll di caverna. Inchiodo e me ne pento. Che cazzo sto facendo? La letteratura è una Sirena: cedile una volta e sei fottuto per sempre. Torno indietro e mi apparto in un parchetto pieno di tossici, sterpaglie e afa estiva post-Crollo. Un Dudu TM piscia tra le scorie, ulula il suo rancore e si lamenta come un uomo. Lo lascio fare, e sotto la luce malsana di un neon radioattivo apro l’Inferno e comincio a leggere... E piango, commosso di fronte alla potenza dei versi danteschi.

Con tutto me stesso rimpiango di non poterli più studiare. Me li godo come un condannato si gode l’ultima sigaretta, o un amante l’ultimo amplesso prima del discidium. Mi becco radiazioni per tutta la notte, ma l’impresa le vale tutte.

Poi, quando la luce del giorno paleserebbe a tutti il mio tesoro, lo nascondo come Gollum e penso a ciò che succederebbe se Lui lo trovasse. Impreco: non se lo merita, Dante Alighieri, di finire così. Penso alla testa di Benigni, messa sottovetro, che ancora resiste e non parla.

Ai miei compari, ovviamente, dirò che alla fine si è arreso, ha cantato. Dirò che l’editore più grosso di tutti ha rifiutato la Divina Commedia, perché il suo testo non gli era più utile. Non potranno dubitare di me, se torno conciato da far schifo, con un inferno di nient tra le mani, e vivo e muoio con loro in maniera miserabile. 

«Al diavolo i danè!», urlo sbattendo a terra il volume e imbracciando l’estintore. Un gallo OGM grande quanto un Tyranitar, in quell’esatto momento, fa chicchirichì da chissà quale orto. Sono un piromane e faccio fuoco, ma mentre rinnego, per non tradirla, l’ultima copia della Divina Commedia, soffro come non ho mai sofferto prima.

 

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Racconto edito nell'antologia PenisolAtomica, Lethal Books, anno 2019.
 
 
 Vincitore della “Sfida a Riviera Napalm” su Minuti Contati (sito)

 

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