I racconti ~ Elegia di un poeta dimenticato


John William Waterhouse, Dante e Beatrice (1915)

 

Ma Virgilio n’avea lasciati scemi

di sé, Virgilio dolcissimo patre…

PG XXX, vv. 49-50

 

Finirà mai di finire, questo Limbo senza pace a cui sono dannato?

La domanda mi riecheggia nella testa. Rimbomba. Non mi dà tregua.

Il delizioso giardino sulla sommità di questo monte, ad altri salvifico, per me inospitale, me lo sono ormai lasciato alle spalle. Mi ero illuso che il verde dei prati e la purezza delle acque del fiume Lete mi riportassero alle mie Bucoliche, ma mi sbagliavo.

Perfino il destino di quel giovane poeta dal naso adunco – quanta strada ha già fatto, quanta ancora ne farà! – non è più nelle mie mani. Stento ancora a comprendere perché sia toccato proprio a me trascinarlo fin qui, tra le dolcezze di un Paradiso in terra che non mi appartiene, per volere di un Dio che non ho mai conosciuto, né conoscerò mai. Quanta fatica, poi, per riuscire a condurlo fin qui sano e salvo! Lui, così puro, così ingenuo… Mentre io… Quanti dubbi a ogni sua domanda, celati dietro ogni mia ragionevole risposta.

Tu sei il mio maestro, il mio autore.

Benedetto ragazzo! Nemmeno si immagina che i suoi versi riecheggeranno nei secoli molto più intensamente dei miei. Eppure, non so se potrà mai perdonarmi. L’ho lasciato a un passo dalla fine del mondo, nell’unico istante possibile, mentre il suo sguardo incontrava quello della sua donna: un angelo vestito da sposa, destinato a far sbiadire perfino Didone. Assurdo, se penso che, anche al suo cospetto, lui mi abbia portato con sé, ricordando un esametro che, fosse stato per me, avrei fatto bruciare più di mille anni fa.

Non era certo l’Eneide, l’eredità più importante da tramandare a quel giovane.

L’arte di aiutare un ragazzo a farsi uomo, forse; e dopo averlo sorretto e visto crescere, lasciarlo camminare da solo, mentre la sua Commedia si compie: soltanto questo, alla fin fine, ho potuto fare per lui. 

Capirà? Starà bene? Lo rivedrò mai? Non lo so. Speriamo. Non importa.

Quello che so è che, mentre lui spicca il volo, i miei passi su queste impervie rocce mi conducono giù, di cornice in cornice, sempre più in basso: e benché faccia del mio meglio per procedere pian piano, anche più a rilento delle anime scomunicate – abbasso lo sguardo: non ho cuore di incrociare la speranza sfavillare perfino nei loro occhi –, so fin troppo bene che, presto o tardi, mi ritroverò di nuovo alle pendici di questo monte, su un lido cosparso di giunchi flessuosi.

E allora, è inevitabile, so che mi piegherò anch’io, come i loro umili steli: umile, sì, eppure dannato, e quindi costretto a calarmi di nuovo, in solitudine, mio malgrado, in quel budello d’inferno dove il cielo è così buio e i pianti, come i rimpianti, sono eterni.

Al solo pensiero, anche il mio animo, il mio sguardo si offusca; declina, si fa più fioco. Qui in Purgatorio mi sento un estraneo, lo sono: mentre tutto si purifica, perfezionandosi, sono io l’unico corpo che cade. La sola stella che affonda.

Lo penso.

Lo accetto.

Rivedrò Lucifero, Ugolino e i Giganti. Forse, strapperò a Ulisse un’altra menzogna in forma di poema epico. Oppure, chissà, stavolta toccherà a me tessere versi per lui, per me: esametri ardenti, nati già morti, per alleviare lo strazio di entrambi.

Da ripetere per l’eternità, come contrappasso, nel Limbo dei miei pensieri senza pace.

Fino alla fine del mondo. Dopo la fine del mondo.

La malinconia di Virgilio che torna all’Inferno, è bene che nessuno, tra i vivi, la racconti mai.


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