I racconti ~ Pensiero Sovrano
Una sconosciuta
alta, pallida e triste,
la mia amata. Che mi ama
al di là delle risa.
Pedro Salinas
Da qualche parte a Faerûn...
Un volto di donna dai lineamenti incerti, tremuli, risplende fioco nell’ombra. Le labbra umide e carnose si schiudono palpitanti d’amore. Il volto pallido della donna, bianco di madreperla, albeggia di una luce diafana. I capelli sono sciolti. Neri e avvolgenti come il mare di notte. I suoi occhi profondi come gli abissi dell’anima. Oscuri e umidi di pianto. Un volto di donna conficcato in un muro che sorride, e piange, condannato per l’eternità...
«I soldati stanno tornando», annunciò l’ufficiale di campo scostando con una mano la cortina di stracci luridi. Un raggio di sole malato trafisse la schiena nuda del chierico. Seduto sulla branda, immerso nella penombra, l’uomo fissava il muro con la testa tra le mani.
«Sbrigati», lo incalzò la voce. «I feriti sono gravi.»
Il chierico sospirò. Gettò un ultimo sguardo al muro vuoto davanti a sé, si alzò in piedi e si voltò verso l’ufficiale.
«Mi hai detto la stessa cosa anche ieri. E il giorno prima. E quello prima ancora.»
«È la guerra», rispose l’altro. «I soldati fanno il loro dovere. Tu fai il tuo.»
«Per la gloria degli Zhentarim», sibilò il chierico a denti stretti. «Così sia.»
Infilò gli stivali e si gettò sulle spalle ossute il mantello da guaritore.
«L’infermeria è piena?»
«Fino alla morte.»
«I filtri per gli appestati sono arrivati?»
«Consegnati dagli arcanisti poco fa.»
«Gli altri guaritori sono pronti?»
«Sono già all’opera.»
Il chierico annuì e uscì all’aperto. Un attimo dopo ebbe un mancamento e vomitò in mezzo alla strada. Le mani callose dell’ufficiale lo sorressero appena in tempo. L’aria puzzava così tanto di piscio, sterco e corpi in putrefazione che era impossibile da respirare.
«La guerra finirà, prima o poi», lo incoraggiò il militare. «E un giorno tutti ricorderanno il tuo nome.»
«Vai al diavolo», lo maledì il chierico tra i conati. Si pulì la bocca con un lembo della veste e barcollò verso l’infermeria.
* * *
La donna, in piedi sull’altare della dea, indossa un vestito d’organza ricamato. I suoi capelli neri, lunghissimi, sono raccolti in una treccia. Profumano di fiori. Un velo eburneo, bianco come la neve, le increspa il viso. Lo sposo lo solleva con mani tremanti. Le guarda gli occhi, il naso, la forma della bocca. Si inchioda il suo volto nell’anima. Giura un amore più forte dell’eternità. “Lo sposo può baciare la sposa”, li benedice una voce remota, funerea. Lo sposo si avvicina, ma le sue labbra restano lontane. Tende le mani senza riuscire a toccarla. Gli occhi della sposa lo fissano, sbarrati. Il volto di madreperla impallidisce dall’altra parte. “Griselda!”, grida disperato lo sposo scagliandosi contro il muro invisibile. La donna socchiude la bocca, appoggia le mani d’avorio sulla superficie trasparente e urla. Ma il suono non arriva. Un minuscolo punto di vuoto le increspa l’organza del vestito. Comincia ad allargarsi. Diventa una sfera di distruzione assoluta che annichilisce la sposa imprigionata nel muro. In piedi sull’altare, immobile e impotente, lo sposo la osserva sfaldarsi e svanire pezzo per pezzo.
L’infermeria dell’accampamento non era una vera infermeria. Era più simile a una spianata di terra battuta fradicia di sangue, fango e sterco su cui si allargavano le brande dei feriti, dei malati e dei morti. Più che un luogo di guarigione, sembrava una macelleria a cielo aperto. Il chierico passava in quell’inferno mormorando incantesimi e toccando membra straziate con le dita scheletriche. Un passo dopo l’altro, i suoi stivali sciabordavano in quel brodo pestilenziale. Con un solo tocco sanò lo squarcio mortale alla gola di un uomo. Un altro tocco e il ventre aperto di un tale che si teneva le interiora fu rigenerato. Altri tocchi, ed ecco ricrescere gli arti mutilati di una moltitudine intera. Ancora tocchi, ed ecco i bubboni violacei degli appestati scomparire, improvvisamente mondati. Chi poteva lo ringraziava con un filo di voce.
«Al diavolo», rispondeva il chierico senza smettere di mormorare e guarire. «Andate tutti al diavolo.»
Per quanto si sforzasse non riusciva mai a salvare tutti. Non dipendeva dalle sue capacità magiche, ma dall’imperfezione della misura del tempo. Toccava un uomo per curarlo e ne morivano altri due dall’altra parte del campo. Gli altri guaritori, anch’essi chierici, non riuscivano a stargli dietro. Ma del resto poco importava: l’orda dei non morti necessitava di abbondanti rifornimenti giornalieri.
«Anche questo andrà ai negromanti?», ansimò il chierico ossuto, arrestandosi sfinito di fronte al cadavere di un quindicenne. I suoi occhi, grandi e neri, erano sbarrati nel mistero della morte.
«Non sono affari nostri», gli rispose un guaritore insignificante con un’alzata di spalle.
«Vai al diavolo pure tu», replicò il chierico. Alleggerì con un tocco il corpo del ragazzo, se lo caricò in spalla e trascinò entrambi fino alla tenda. Buttò il cadavere sulla branda e si sedette a lato. Gli prese la mano. Invocò la dea e lo sottrasse alla morte. Il ragazzo ebbe uno spasimo e ricominciò a respirare.
«Che cosa ricordi?», gli chiese il chierico.
«La spada ingemmata del Lord... Il suo scudo col Grifone...», mormorò il soldato bambino. «Il dolore, la paura. Tutto quel sangue...»
«Non quello, idiota. Ciò che è successo dopo. Cos’hai visto quando sei morto?»
Il ragazzo non riuscì a rispondere. Il chierico, benché se lo aspettasse, sospirò deluso.
«Perché ti sei arruolato con gli Zhentarim, almeno, te lo ricordi?»
Il fanciullo annuì.
«Per la fame. Se faccio carriera nell’esercito... Mia madre e i miei fratelli...»
Il chierico trasse fuori da un baule alcune monete d’oro e gliele porse.
«Imbarcati sulla prima nave e sparisci da qui. Non arruolarti mai più.»
Il ragazzo annuì, intascò le monete e si fermò sull’uscita.
«Perché, tra tutti, hai resuscitato proprio me?»
Il chierico lo fissò dolorosamente.
«Hai lo stesso colore dei suoi occhi. Lo stesso sguardo sbarrato. Se mai dovessi amare una donna, ragazzo, fa’ che non sia a Faerûn.»
* * *
Lo sposo, sgomento, crolla in ginocchio davanti all’altare. Vomita per la rabbia e si volta, realizzando solo allora le urla laceranti tra le navate del tempio. È in atto un massacro. I nobili del Regno di Arcadia, presi alla sprovvista e falciati dall’acciaio degli empi, rantolano da terra in un mare di sangue. Riecheggia una risata tonante. Un guerriero colossale, completamente ricoperto di ferro, torreggia in quella carneficina affiancato da un potente arcanista. Il volto di entrambi è coperto.
«Auguri e figli maschi, Principe Arcadio.»
«Andate al diavolo», li maledice lo sposo, alzandosi da terra e barcollando verso di loro.
«Andate al diavolo», ripete, strappando una spada a un cadavere riverso e mulinandola con un gesto accademico, disperato.
«Andate al diavolo», geme, quando a un cenno dell’arcanista la spada gli schizza via dalle mani e il pugno borchiato del gigante lo raggiunge, mozzandogli il fiato e sfracellandogli il ventre.
«Andate al diavolo», piange, risvegliandosi con l’anello di Griselda stretto in pugno, le membra fracassate tenute insieme dalla magia e lo sguardo dello stregone elfo, vecchissimo, fisso su di lui.
«Il Regno di Arcadia è caduto. La tua Griselda è dannata. Mi dispiace.»
Era notte fonda quando il chierico, terminate le orazioni, fu convocato nella tenda di Manshoon. Obbedì all’ordine e si presentò al suo cospetto. «Entra», comandò l’arcimago nella mente. Il chierico attraversò il campo di forza. Lo trovò seduto a un tavolo ricolmo di pergamene e altre scartoffie. Sembrava completamente assorto.
«Un’altra ottima prova», si complimentò il vecchio senza alzare lo sguardo. «La tua fama di guaritore cresce in fretta. Avrai bisogno di un nome, se vuoi ostinarti a non usare il tuo.»
«Malasorte.»
«Una scelta singolare.»
Malasorte non rispose.
L’arcimago, chino sul tavolo, continuò a studiare le pergamene con aria indifferente.
«Che cosa vuoi? Oro, diamanti? Un villaggio da governare? Donne, fanciulli? Se vuoi, posso darti tutto questo: mi hai reso un ottimo servigio.»
«Non ho interesse nelle guerre degli Zhentarim. Voglio lavorare per te. E basta.»
«Il posto di un chierico è sul campo di battaglia. A fare i miracoli. E tu, stando a quel che si dice, sei un guaritore eccellente.»
«Sforzi vani. Non sono guerrieri, ma animali da macello. Se gli arcanisti facessero sul serio avrebbero già chiuso la partita con il Lord.»
«Ti interessi anche di politica?»
«Non più. O perlomeno quanto basta. Questa campagna insignificante non è altro che uno spreco pianificato di vite, tempo e magia.»
«Hai ragione. L’ho pensata io stesso al solo scopo di saggiare le tue qualità», rivelò l’arcimago. E per la prima volta dall’inizio del colloquio sollevò la faccia incartapecorita dalle pergamene.
«Chi ti ha insegnato a guarire così?»
«Un vecchio stregone, tempo fa.»
«Con la magia che ti ritrovi avresti potuto studiare come arcanista.»
Malasorte tacque.
«Chi vuoi salvare?», chiese l’arcimago, incuriosito. «Deve essere una brutta storia se nemmeno la resurrezione ti basta come incantesimo.»
Malasorte tacque ancora.
«Se vuoi lavorare per me devo sapere per cosa combatti.»
«Una Fenice dannata», rispose il chierico, criptico. «Qualcuno le ha strappato le ali, negato la pira e disperso le ceneri. Ma io ho giurato di riportarla in vita. E di vendicarla.»
«Non è facile sfuggire al Muro dei Senza Fede.»
Malasorte annuì.
«Interessante e complicato. Mi piaci, Malasorte. I miei diretti sottoposti sono quelli che godono di maggiore libertà. Aiutami, e anch’io ti aiuterò.»
Il chierico imboccò l’uscita, ma a un tratto si fermò. Lo assalì il dubbio.
«L’incantesimo di resurrezione... Come facevi a sapere?», osò chiedere a Manshoon.
Il vecchio lo fissò con occhi penetranti, mefistofelici. Di colpo divennero grandi e neri: gli stessi del soldato bambino e di Griselda. Incrociò lo sguardo di Malasorte, che annuì senza fiatare. Si allontanò imprecando.
* * *
Un volto di donna dai lineamenti incerti, tremuli, risplende fioco nell’ombra. Lontano al punto da sembrare irreale. Le labbra carnose e umide si schiudono palpitanti d’amore. Ma il sorriso si muta in un urlo, il bacio in oblio. Il volto della donna non esiste, è una maschera. Bianco di madreperla, pallido e trasparente, albeggia di una luce diafana. Ha i capelli sciolti. Le ciocche fluttuanti come fronde di salice, fili di nulla nell’oscurità. I suoi occhi, vacui, due specchi spalancati sull’Abisso. “Griselda!”, grida il chierico con quanta forza ha in corpo, ma il suo richiamo è vano. Si fa strada a forza, disperatamente, scavando oltre i confini dell’anima. Ma il Muro dei Senza Fede è lontano, irraggiungibile. I volti dei dannati luccicano come stelle remote. Il chierico tende la mano e spinge con le dita sottili, lunghe e scheletriche... Una coltre di buio primordiale, senza tempo né forma, gli si oppone. “Griselda, Griselda!”, grida ancora, appellandosi alla donna e alla dea. Ma la dea non risponde. Griselda non risponde. Le sue mani restano immobili. E mentre una voce remota, primitiva e vibrante lo ghermisce per portarlo indietro, tra i vivi, il Principe Arcadio la vede. Una lacrima. Una sola, azzurra lacrima su un volto di donna conficcato in un muro, condannato a contorcersi per l’eternità...
La terra tremò sotto l’acciaio delle armate. La fanteria Zhentarim e quella del Lord si scontrarono ancora, obbedienti e instancabili, violentando la valle e i campi arati di fresco. Una battaglia insignificante che non sarebbe mai interessata a nessuno. Sopra di loro, sopra la valle, sopra l’intero Faerûn, il cielo era grigio, denso e pesante di piombo. Dall’alto delle nubi squarciate, prive di calore, filtravano raggi funerei. Il Lord guidava la carica su un possente destriero. Sullo scudo metallico campeggiava un Grifone rampante, lo stemma della sua famiglia. Ciò che restava del suo esercito lo seguì a ranghi compatti, belando come un gregge di pecore. Le milizie degli Zhentarim, altrettanto disciplinate, sguainarono le spade fiammanti e seguirono il loro mandriano. Avidi e ignoranti, si massacrarono a vicenda. Sangue di agnello impregnò la terra infetta del Faerûn.
Protetto da un filtro di invisibilità Malasorte osservava la scena a denti stretti. Sul volto emaciato scorrevano lacrime di rabbia. Con le mani giunte pregò per loro, tutti quanti, affinché andassero al diavolo al più presto. Se solo avessero saputo... Dietro uno schermo magico, che proiettava sull’intera valle l’illusione di una piana desolata e immobile, un manipolo di arcanisti si era radunato su ordine di Manshoon e mormorava, in cerchio e all’unisono, un’unica terribile formula. Il Lord, ignaro, combatteva ancora. La spada ingemmata era lurida, smussata. Lo scudo col Grifone perforato in più punti. Ma nella sua fronte alta, madida di sudore e sangue rappreso, resisteva ancora la dignità, l’orgoglio ostinato di chi spera. Un altro Principe idiota. Non c’è futuro per chi vive a Faerûn. La terra vibrò. Le pecore bianche e nere abbassarono le armi senza capire. La spada ingemmata del Lord schizzò per aria. Lo scudo col Grifone si ruppe. La terra si squarciò con un boato e una colonna di fuoco infero, terribile, fuoriuscì dall’Abisso. Abbatté il Lord ingenuo, imbrattò il cielo di rosso e divorò l’intero gregge. I colli rimasero vuoti. Nessuno, eccetto il chierico invisibile, assistette alla scena. A nessuno sarebbe importato. L’erba sarebbe ricresciuta e il Faerûn, terra di bieche ambizioni, non di sogni, avrebbe dimenticato. Gli arcanisti di Manshoon, esecutori di misfatti, svanirono senza lasciare tracce.
«Ti salverò da tutto questo», promise Malasorte ad alta voce. «L’ho giurato.»
Radunò i cocci dello scudo infranto, aguzzi come denti rotti, e li saldò con un tocco delle dita. Mutò lo stemma del Grifone in una Fenice scheletrica e ribattezzò l’arma Pensiero Sovrano. La rivendicò per sé e Griselda. E sotto i raggi di una luna fredda, nera e stridente, purificò le anime dei morti e pregò la sua dea, la più inutile di tutte, affinché andassero al diavolo.
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Tales from Forgotten Realms (Dungeons & Dragons)
Su Minuti Contati (sito), anno 2020
