I racconti ~ Memento. L'ultimo viaggio di Jaufré Rudel

Ma quel che più voglio mi è stato vietato,

perché così mi stregò il mio padrino,

che io la amassi e non fossi riamato.

 

Ma quel che più voglio mi è stato vietato.

Sia maledetto l’oscuro padrino 

che mi stregò perché non fossi amato! 

 

Jaufré Rudel, XII sec.

 

 

«Lasciatemi suonare ancora un po’», soleva sempre dire il mio signore. «Lasciatemi cercare un altro verso. Dico davvero, lasciatemi qui: perché cantare un amore lontano suona a me dolce, ma pur tanto amaro».

Chiamatemi Bertrando. Non sono un poeta, io che scrivo, solo un servitore. Per molto tempo ho servito la casata di Blaia e il mio signore Jaufré Rudel, principe gentile e di nobile aspetto, portando il suo scudo e ascoltando i suoi motti. Ero al suo fianco quando esalò il suo ultimo respiro. Fu su una spiaggia lontana, teneva gli occhi fissi sul mare e tra i capelli di una donna. L'ho servito, e continuo a servirlo tuttora: dentro un monastero, sotto un altro nome – non più Bertrando io sono, dopo aver preso i miei voti –,  ecco mi appresto a scrivere e tramandare la sua storia a chi vorrà leggerla e tramandarla, così che non si perda. Spiriti gentili, io mi appello a voi. Uomini e donne di ogni tempo, di ogni luogo, ricevete di buon animo questo racconto, conservate e accogliete in cuor vostro la memoria di Jaufré Rudel, che amò a tal punto la bella Melisenda, pur senza averla mai vista, che non solo la cantò nei suoi versi, ma si fece crociato e prese il mare per giungere a lei, si ammalò durante il viaggio e infine morì tra le sue braccia.

 

***

 

Il sorgere del sole giungeva sul mare accompagnato da una fresca brezza. Viste da lontano, le onde risplendevano come in un sogno. Infiniti bagliori rossastri luccicavano sull’acqua. Il poeta guardava il mare. E in quell’azzurro scorgeva mille scintille acuminate e d’oro: una falange minacciosa che con lance avanzava verso di lui, le punte rosse colorate del suo sangue.

La nave veleggiava nel mattino, mostrando a tutti il rosso segno della Croce. Sì, erano i cavalieri crociati. Con loro c'era il poeta. Si erano lasciati alle spalle l’isola di Cipro e procedevano verso Tripoli, avvolti in una rossa alba. Avvampavano. O almeno così sembrava al nobile Jaufré, l’alta sua fronte già imperlata d’argento.

«Mio signore, voi scottate», disse Bertrando, asciugandogli il sudore con una pezza. Ma il poeta non lo udì. Jaufré guardava il mare, cercando in lontananza il profilo del castello di Tripoli. Era lì che dimorava la contessa. E lui andava finalmente a incontrarla, mentre il canto di antichi gabbiani lo accompagnava in questo suo allontanarsi, incerto e sognante, verso un’altra vita.

«Mio signore, voi non state bene», ripeté il fido Bertrando. «A malapena vi reggete in piedi. Venite a distendervi.»

Ma il poeta non poteva.

«Non ancora, amico mio. Presto dormirò, e il sonno sui miei versi sarà eterno. Ma fino ad allora canterò. Va’, Bertrando, portami il liuto; tieni il tempo con il cembalo.»

Chino sul suo strumento, Jaufré Rudel cantava con una dolcezza tale da incantare i sensi. Cantava di un amore lontano, fiorito a maggio e vivo solo nei ricordi. Un amore struggente, benché soltanto immaginato, vivo e morto come i canti di uccelli perduti. Cavalieri e marinai lo ascoltavano a occhi chiusi. Stormi alati di gabbiani volteggiavano e cantavano con lui. Un profumo di biancospino – o forse era il mare? – riempiva a tratti l'orizzonte infuocato. Il poeta cantava con un ardore tale da far crepitare la nave. E non smise di farlo finché in lontananza non prese forma la torre a lungo attesa. Così alta e lontana da sembrare sospesa tra il mare e il cielo. Poi si vide il porto... la spiaggia. Il poeta crollò a terra sfinito. Si ruppe in due il liuto. La voce gli restò nel petto sull’ultima nota. Bertrando ripose il cembalo e gli si avvicinò con gli occhi pieni di lacrime. Il trovatore aveva perso i sensi.

 

***

 

Jaufré Rudel giaceva disteso e delirante sopra il letto. Il medico scosse la testa e giunse le mani in segno di preghiera. Betrando lo fissava sconsolato.

«Siete sicuro, eccellenza, che non si possa più fare nulla?»

«Solo attendere il suo ultimo viaggio e confortarlo come meglio potete. Ho saputo che è un trovatore...»

Bertrando annuì.

«E cosa mai trovò, di preciso?»

Ebbro di delirio, Jaufré Rudel prese a cantare in una lingua meravigliosa e sconosciuta, tese le mani verso una sagoma invisibile e perse di nuovo i sensi. Bertrando sospirò.

«Non so se il suo trovare sia degno o meno del vostro sapere. Trovare suoni e parole non vale quanto le vite che salvate ogni giorno. Ma so una cosa: in tutti questi anni non ho mai vissuto davvero, se non attraverso i canti del mio signore. E se per molti la vita è passare molti anni in ricchezza e salute; so che per altri la vita è più breve, disgraziata e intensa. Jaufré Rudel sta morendo. Se la sua voce si perde, il mio cuore sarà vuoto. Ogni gioia vana, e io non potrò più essere felice. Forse trovò davvero, cantando, ciò che non si vede. Un’altra vita, più lunga e preziosa di questa. Vedeste mai il colore di un’anima? Ciò che non è corpo non si può vedere né toccare, ma forse il poeta...»

Bertrando si interruppe e si accorse che l’altro aveva smesso di ascoltarlo. Il medico scrutava il trovatore con occhi febbrili ma incapaci di comprendere il suo mistero. Ed era talmente assorto da non vedere che perfino Bertrando si era allontanato da lui per un ultimo servigio, determinato ad apparecchiare al suo signore il sogno di tutta una vita.

 

***

 

Jaufré Rudel sedeva pensoso sulle rive del mare. Guardava lontano. Oltre l’orizzonte infuocato e il cielo terso, rosso azzurro e oro; oltre il tramonto e i gabbiani garruli e lieti sopra le onde. Era stanco. Sul volto scarno c’era l’ombra di un sorriso. Veniva da un lungo vagare e si sentiva sia lieto che triste.

«Forse», disse il poeta a se stesso, «quando si ama qualcosa di lontano, l’occhio non sa se piangere di gioia o dispiacere. Mi mancate, Melisenda. Potessi conoscere una volta i vostri sospiri. Sapere di avervi al mio fianco nell’ultimo sogno. Che almeno vi vedessi una volta, o mia lontana, e vi parlassi con parole alate, e poi me ne partissi nel tramonto! Ah, Melisenda, sarebbe un bel partire: sarebbe un bell’andar lontano!»

Ardente e fiero sotto il tramonto, il trovatore pensava a questo e altri motti. Il male era lontano da lui. Conficcato nella sabbia c’era il suo bordone. O Jaufré, deserti che passasti!, pareva quasi dire, altalenando al vento. Schiavo di lontano, come un pellegrino, giungesti per conoscere il tuo sogno: in terra oscura, arida e straniera, venisti infine e qui piantasti il remo, con cui fendesti l’onda gialla del deserto. E ora hai avanti il mare, Rudel, il mare, che canta a te coi suoi riflessi d’oro, che tu ascoltasti e ora a lei ricanti...

 

Ben dice il vero chi dice che ho fame,

grande è il disio del mio amore lontano! 

Non vi fu gioia che fu a me più cara 

dell’abbracciar quel mio amore lontano!

 

Fu allora che ti voltasti, e che vedesti, o poeta, la tua Melisenda. Veniva a te dal deserto – o forse dal mare? –, simile a una dea meravigliosa, con gli occhi luminosi simili a stelle. Venendo a lui nel sogno – Jaufré la vedeva –, la donna singhiozzava: lacrime azzurre le bagnavano il volto e un velo nero ne adombrava lo splendore. E Jaufré Rudel seppe che veniva a recargli il saluto, primo e pur ultimo motto d’amore. Sì, stava morendo; ma Jaufré, tu solo sai quanto ti fu dolce quel morire! Col cuore in festa il trovatore sorrise e levò alto al cielo, al mare e alla donna il cristallo dei suoi versi.

 

Io per amor non potrei mai gioire,

se non trovassi il mio amore lontano;

altro e miglior non esiste da dire,

né in questo luogo né altrove o lontano!

 


A quell’udire, sempre avanzando verso di lui, Melisenda sorrise al poeta. Con gli occhi ancora umidi di pianto sciolse il velo nero e lo gettò al vento. Il viso le splendette radioso – bianco, azzurro e rosso –, e luccicò la chioma bionda, simile all’onda di un dorato mare. Lo raggiunse mentre ancora cantava e lo strinse a sé. Jaufré Rudel, ora sospeso tra due mari – uno azzurro alle sue spalle, uno dorato davanti agli occhi –, sentì di colpo tutta la stanchezza, amara ma dolce, come un richiamo a camminar lontano...

Fiori colorati di ogni sorta sbocciavano sulla sabbia diafana, mentre i primi raggi della luna si specchiavano nel mare azzurro, profumandolo di lontano. Un alito fresco di salsedine, o forse di fiori, soffiò ai dolci sensi del poeta, che adesso riposava sdraiato sull’erba, sulle rive del mare. Parlava a Melisenda, e nelle sue parole il trovatore non vedeva il buio letto in cui giaceva agonizzante. Un palazzo fatato torreggiava limpido nel suo sogno. L’esile bordone, ancora conficcato nella sabbia, germogliò di verde e improvvisamente fiorì: divenne un albero fronzuto ricolmo di fiori e frutti, profumi e colori; e molti uccelli, venuti da lontano, gioivano sui suoi rami. Sotto le ampie fronde stavano i due amanti, lontano e lontani dal mondo. Davanti a loro c’era solo il mare. Il nobile Jaufré, sentendo che ormai le forze gli venivano meno, interruppe il canto e si abbandonò tra le braccia della donna. Con la testa reclinata sul suo grembo esalò le ultime parole:

 

«Contessa, mia vita», sospirò, «l’ombra di un sogno mi parve la vita, forse una favola, breve e infinita. Io vi cantai, ma il canto mi sfugge, e il sogno finisce e il mio amor».

 

E mentre già sfumavano in lontananza il castello, l’albero e la spiaggia, e scompariva tutto quanto nel tramonto, la donna avvolse l’uomo nell’onda dei suoi capelli – o era forse il mare dorato? –, lo strinse al seno e per tre volte lo baciò; e Jaufré, nell’attimo finale della vita, vide attorno a sé la poesia dell’astro d’oro, radioso e calante nel mare azzurro, e un sorriso umido di pianto, candido e rosso.

 

***

 

La tremula vicenda dell’amor de lonh, o amore di lontano, che vede come protagonista il poeta e trovatore Jaufré Rudel, vissuto nella prima metà dell’XII secolo, si sospende ancora oggi tra sogno e leggenda, vero e fittizio, storia e allegoria.

Il dibattito sulla vita, la morte, l’amore di quest’uomo per una donna mai veduta fu per i posteri talmente controverso da spingerne molti ad affermare, non senza ragione, che la poesia di Jaufré Rudel abbia reso lo stesso poeta inafferrabile a sua volta, lontano e irraggiungibile come quella sua donna dai contorni incerti, impalpabile come un’idea. Tutto ciò che resta, e che sembra certo, non è che il suo sospiro, incantevole ed eterno, capace di afferrare l’infinito, sia pure per un breve istante. Proprio come Orfeo, altro leggendario cantore, Jaufré Rudel non solo commosse gli spettri, ma riuscì a guardarli in faccia.

Quel che avete letto non è che un maldestro tentativo da parte di un servo del poeta Bertrando fu forse il mio nome –, di riecheggiarne il canto, così che non si perda, perché in quel canto soave e non altrove splendette ogni mia gioia.



 
Nota dell'Autore

Le traduzioni, dalla lingua d’oc all’italiano, di alcuni versi di Jaufré tratti dalla celebre Lanquan li jorn son lonc en mai sono opera mia. Per quel che mi è stato possibile, ho tentato di adattare l’armonia del provenzale alla cadenza dell’endecasillabo italiano. Per il problema delle fonti rimando alla vida del poeta e alle sue canzoni, nonché allo splendido omaggio in versi, intitolato Jaufré Rudel, scritto dal Carducci e commentato dallo stesso nella conferenza del 1888. Da questo poemetto il mio racconto trae alcune delle sue mosse. A questo e ad altri testi, più o meno nascostamente, decido anch’io di rendere omaggio, proprio come il fido Bertrando, riecheggiandone il canto, ‘così che non si perda’.

 

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Racconto edito nell'antologia Racconti lombardi, Historica, anno 2017.

 

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